202106.11
0

Fallimento interrompe il processo, da quando decorre il termine per la riassunzione?

in news

Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione si sono pronunciate recentemente in ordine all’individuazione del dies a quo del termine di decadenza per riassumere il processo che sia stato interrotto ai sensi dell’art. 43, co. III, L.F., ossia a seguito di apertura del fallimento di una delle parti in causa.

Intervenuto il fallimento, l’interruzione è sottratta dall’ordinario regime dettato in materia dall’art. 300 c.p.c.: essa, infatti, opera automaticamente e deve essere dichiarata dal Giudice appena ne sia venuto a conoscenza. La dichiarazione di fallimento assicura l’improduttività di conseguenze agli atti processuali compiuti nel processo per ciò stesso interrotto automaticamente. Il fallimento di una delle parti del processo rende irrilevante, ai fini della produzione della conseguenza interruttiva, la notificazione alle altre parti costituite da parte del soggetto fallito ovvero la dichiarazione in udienza dell’intervenuto fallimento. Il Fallimento, dunque, fuoriesce dall’ambito applicativo dell’art. 300, co. I, II e IV. c.p.c.

Ciò presuppone che cada in capo allo stesso Giudice un dovere di cooperazione, che si realizza con un suo atto di natura dichiarativa, che provochi l’inizio della decorrenza del termine per riassumere o proseguire da chi vi abbia interesse e legittimazione.

In caso di apertura di un fallimento, ferma l’automatica interruzione del processo che ne deriva ai sensi del menzionato art. 43, co. III, L.F., per evitare gli effetti dell’estinzione di cui all’art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi degli artt. 52 e 93 L.F. per le domande di credito, per garantire la prosecuzione è necessario riassumere il processo entro il termine perentorio di tre mesi.

Con sentenza n. 12154 del 7 maggio 2021, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto interpretativo esistente relativo al dies a quo dal quale calcolare il termine per la riassunzione o prosecuzione del giudizio conseguente alla dichiarazione di fallimento. Gli Ermellini hanno pronunciato apposito principio di diritto che prevede come, in caso di apertura del fallimento, il termine per riassumere decorra da quando la dichiarazione giudiziale dell’interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte.

Tale dichiarazione, qualora già non conosciuta nei casi di pronuncia in udienza, va direttamente notificata alle parti o al curatore da ogni altro interessato ovvero comunicata – ai predetti fini – anche dall’ufficio giudiziario, “potendo inoltre il giudice pronunciarla altresì d’ufficio, allorché gli risulti, in qualunque modo, l’avvenuta dichiarazione di fallimento medesima”.

L’individuazione da parte delle Sezioni Unite della dichiarazione giudiziale quale elemento costitutivo del dies a quo di decorrenza per la riassunzione viene spiegato sia alla luce di una maggiore compatibilità di tale strumento con l’art. 43, co. III, L.F., così considerando la specialità della norma rispetto agli artt. 299, 300, co. I, e 301, co. I, c.p.c., sia in quanto essa appare più idonea a realizzare gli obiettivi di affidabilità, prevedibilità e uniformità delle norme processuali costituenti un “imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di giustizia del processo”.

La pronuncia della Suprema Corte in esame sforzandosi di rendere compatibili le disposizioni fallimentari con quelle di procedura e, per quel che qui interessa, conferma, dunque, come sia possibile riassumere il processo interrotto rispettando il termine previsto, che decorre dall’interruzione del processo e non, invece, dalla dichiarazione di fallimento. La Corte ritiene, poi, non sovrapponibile la comunicazione ex art 92 L.F. con la comunicazione di cui all’art. 300 c.p.c.: non è, dunque, possibile ritenere la parte decaduta dalla possibilità di riassumere il processo, stante l’inidoneità della comunicazione ex art. 92 L.F. dell’avviso al creditore.