201710.09
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Focus: Il patto di non concorrenza

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CONCRETA APPLICABILITÀ E LIMITI OGGETTIVI DELLA CLAUSOLA

Nozione
L’art. 2125 del Codice civile disciplina il patto di non concorrenza, definito come un “patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto”, entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo. Una tale previsione legislativa, volta a tutelare gli interessi imprenditoriali del datore di lavoro e a prevenire un illegittimo sviamento della clientela, è calmierata dall’obbligo di versare un corrispettivo al lavoratore dipendente, sul quale, di fatto, grava una limitazione della propria futura capacità lavorativa nel settore economico di riferimento. Il patto di non concorrenza si configura, pertanto, come un contratto a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive (Cass. Civ. Sez. lavoro n. 2221/1988), stipulato in forma scritta ad substantiam.

Limitazioni di oggetto, luogo e tempo
Il patto di non concorrenza deve riferirsi ad un preciso settore di produzione e ad una determinata attività lavorativa, che può, tuttavia, anche differire da quella effettivamente svolta nel corso del rapporto di lavoro. In tal modo, si vuole evitare che le competenze e la professionalità acquisite da un dipendente all’interno dell’impresa possano avvantaggiare eventuali diretti competitors sul territorio nazionale e non solo. Tuttavia,“il patto di non concorrenza è nullo qualora il vincolo non sia contenuto entro determinati limiti di oggetto e di luogo, cioè quando lo stesso comporti una compressione della concreta professionalità del lavoratore a tal punto da annullarla in pratica, precludendo a quest’ultimo ogni possibilità lavorativa nel suo campo professionale” (Trib. Bologna, 12/11/2009; Corte d’App. Bologna, Sez. lavoro, 20/05/2008; Cass. Civ. 4/04/2006, n. 7835).
In merito alle limitazioni geografiche imposte dal patto (che può riguardare una città, una regione e finanche una nazione), l’interpretazione maggioritaria sostiene che per luogo debba intendersi non la sede della Società (che rappresenta solamente un’elezione di domicilio) ma l’effettiva area di interesse sulla quale questa opera avendo riguardo alla propria clientela (Cass. Civ. Sez. Lav. n. 5477/2000, precisamente “l’indicazione di uno o più Stati contenuta nel patto di non concorrenza deve necessariamente essere intesa «come divieto dello svolgimento di una determinata attività lavorativa nel territorio dei suddetti stati e non co- me esclusione della prestazione dell’attività per società aventi la propria sede nell’indicato ambito territoriale ovunque il lavoratore si fosse trovato, pena la nullità del patto stesso”). Per tali ragioni i limiti del patto di non concorrenza devono corrispondere a limiti di esecuzione del lavoro ovvero a limiti del luogo reale di svolgimento dell’attività.
Infine, l’art. 2125 c.c. precisa che il patto non può avere una validità superiore ai 5 anni dalla cessazione del rapporto lavorativo in caso di dirigenti e di 3 anni per altri inquadramenti lavorativi, tale per cui, qualora il patto stabilisse una durata temporale superiore, questa sarebbe ridotta di diritto.

L’obbligatorietà del corrispettivo
Un requisito fondamentale, infine, del patto di non concorrenza è il corrispettivo, versato dalla parte datoriale al lavoratore, per un ammontare proporzionale e congruo al sacrificio imposto a quest’ultimo, da valutarsi in relazione ai limiti temporali, spaziali e contenutistici nonché al minor guadagno che potrebbe derivarne. Congruità, pertanto, che deve essere valutata “in relazione alla durata, alle mansioni specifiche del lavoratore ed al suo livello di inquadramento” (Trib. Torino, 16.01.2006). Se il corrispettivo pattuito risulta esiguo in rapporto al sacrificio richiesto e alla riduzione delle possibilità di guadagno, il patto stesso potrà essere dichiarato nullo. Tale corrispettivo dovrebbe, infatti, costituire “il prezzo di una parziale rinuncia al diritto al lavoro costituzionalmente garantito” (Trib. Milano, 18.06.2001). In merito, poi, alle modalità di versamento del corrispettivo, la dottrina ammette la possibilità di versare il corrispettivo in cifra fissa o in percentuale, continuativamente, nel corso del rapporto lavorativo, nonostante giurisprudenza di merito sostenga il contrario. Il Tribunale di Milano ha statuito che “viola la norma la previsione del pagamento di un corrispettivo del patto di non concorrenza durante il rapporto di lavoro in quanto la stessa, da un lato, introduce una variabile legata alla durata del rapporto di lavoro che conferisce al patto un inammissibile elemento di aleatorietà e indeterminatezza e, dall’altro, facendo dipendere l’entità del corrispettivo esclusivamente dalla durata del rapporto, finisce di fatto per attribuire a tale corrispettivo la funzione di premiare la fedeltà del lavoratore, anziché di compensarlo per il sacrificio derivante dalla stipulazione del patto” (Trib. Milano, 19.03.2008).

La nullità e/o annullabilità del patto di non concorrenza
Diverse possono essere le ragioni che determinino la nullità e/o annullabilità del patto di non concorrenza. Giurisprudenza costante conferma la nullità del patto che, per la sua ampiezza, in ragione del tipo di attività vietata e della sua estensione territoriale, sia tale, da comprimere eccessivamente la libertà della capacità lavorativa del dipendente e non sia stato stabilito un compenso adeguato al sacrificio del lavoratore. Ciò, anche, alla luce del fatto che la nullità del patto, dovuta ad un sua eccessiva estensione geografica, debba essere valutata congiuntamente alle limitazioni relative all’oggetto.
Risulta, peraltro, ormai pacifica la massima per cui è nullo, per contrasto con l’ordine pubblico, “il patto che sia diretto a precludere al lavoratore la possibilità di impiegare la propria capacità professionale nel settore economico di riferimento ovvero di comprimere eccessivamente la libertà della capacità lavorativa del soggetto obbligato” (Trib. Milano, sez. specializzata in materia di imprese, 23.11.2016; Cass. Civ. Sez. 1, 12.11.2014, n. 24159; Cass. Civ. Sez. 1, 12.11.2014, n. 24159). Occorrerà, pertanto, valutare, caso per caso, se, nel rispetto dei limiti imposti dal patto di non concorrenza, il lavoratore possa comunque, dopo la risoluzione del rapporto di lavoro, svolgere una nuova attività coerente con la propria esperienza e la propria professionalità nel settore economico di riferimento nonché ottenere un guadagno adeguato alle sue esigenze.
In merito al corrispettivo, il patto potrà essere annullato, in primis, se questo risulti essere inadeguato rispetto al sacrificio sopportato dal lavoratore e, in secondo luogo, se non è determinato, o quantomeno determinabile, nel suo ammontare. Determinazione che risulterebbe, ad esempio, impossibile qualora il corrispettivo fosse riferito ad un contratto a tempo indeterminato poiché, non potendosi calcolare, a priori, la sua effettiva durata, non potrebbe nemmeno essere quantificato il corrispettivo complessivo finale. Indeterminatezza che genera conseguente invalidità del patto. Il Tribunale di Ascoli Piceno ha precisato, infatti, che “è nullo, ai sensi dell’art. 2125 c.c. il patto di non concorrenza che prevede il pagamento del corrispettivo, non preventivamente determinato, in costanza di rapporto di lavoro, poiché la non prevedibilità della durata dello stesso rende aleatorio ed eventuale un elemento fondamentale del patto e, cioè, il prezzo dovuto al lavoratore per la sua parziale rinunzia al diritto al lavoro” (Trib. Ascoli Piceno, 22.10.2010).
È utile ricordare, infine, che qualora fosse dichiarato nullo il patto di non concorrenza, ciò potrebbe determinare da parte del lavoratore la legittima richiesta di restituzione di quanto ricevuto nel corso del rapporto lavorativo, a titolo di corrispettivo per i vincoli al patto stesso (somma, tuttavia, al netto da tassazione).